giovedì 29 ottobre 2020

Dante

Sala delle Esposizioni dell'Accademia delle Arti del Disegno - Firenze

Dante realizza in poesia ciò che il suo contemporaneo Giotto realizzava in pittura. Dante, come Giotto, ci fanno capire che non pensano più al mondo dell'aldiquà e al mondo dell'aldilà come due cose separate e questa è la loro grande intuizione. Attraverso le loro opere non credono che ci siano due regni, intesi, all'epoca, come struttura filosofica prima ancora che religiosa, convinzione che rispecchiava il pensiero di Aristotele per cui sarebbe esistita una distanza tra il mondo sublunare e il mondo sopralunare, ritenendo che alla fascia della luna ci fosse un cambio di sostanze dove al di sopra sono le sostanze eterne e al di sotto le sostanze divenienti e imperfette. Dante e Giotto si contrappongono alla tradizione artistica dei “fondi oro” e a quella letteraria dell'epoca ben rappresentata dall' “Anticlaudianus”: un viaggio nel nell'oltretomba di Alano Di Lille che narra di incontri con la Temperanza, la Giustizia, la Carità, la Grazia, tutte figure allegoriche, figure astratte, lontane e inafferrabili come lo erano le immagini delle pitture. Non e certo ininfluente il fatto che Dante scelga Virgilio come guida tra tutte le guide che avrebbe potuto scegliere, una persona reale e non una allegoria astratta. Sceglie una guida che come lui è un uomo in carne ed ossa. Questo è profondamente cristiano: non una generalità astratta, ma qualcuno che si è incarnato. Dio si è fatto carne, quindi parlerà dell'aldilà attraverso persone che sono carne, corpo e sangue. Dante si inventa questa nuova cosa: non si affida alle grandi allegorie: non c'è la Lussuria, c'è Paolo e Francesca. Questa è la grande novità: non allegorie astratte, ma figure. Un colpo di genio con cui ha popolato il suo poema di grandi figure della sua epoca e dell'epoca passata in modo tale che tutti le avessero perfettamente presenti.
Lo stesso fa Giotto ed in questo consiste la sua rivoluzione più o meno negli stessi anni in cui Dante Alighieri scrive la Divina Commedia, Giotto rappresenta in pittura la verità, la verità fisionomica, la verità anatomica, la verità affettiva, la verità dei sentimenti, delle passioni, del dolore. Ad esempio nel crocifisso Giotto rappresenta un vero uomo in croce che non diminuisce la sacralità di Cristo. Però è l'uomo dei dolori, è Cristo fattosi uomo che ha tutta la straordinaria evidenza di un uomo vero. È la scoperta del vero, vero fisico e psicologico, ma anche l'intuizione della profondità, dello spazio nella prospettiva. Il corpo occupa lo spazio e Giotto analizza una ad una le costole, il torso gira mentre la gamba inchiodata alla croce dà l'idea di qualcosa che occupa lo spazio che ruota in qualche modo.
Tutto questo si collega all'essere è l'apparire? Qual è la differenza tra ciò che è, ciò che rimane immutabile rispetto a ciò che invece appare, a ciò che si modifica, a ciò che è una percezione fenomenica? Sia in Dante che in Giotto c'è questa problematica ontologica prima ancora che escatologica, cioè quella di porsi il problema dell'essere, il problema di ciò che sta alla base di tutto, il problema di ciò che è. Come affrontano questo problema dell'essere? Ponendo l'accento sull'uomo come unico essere che si può porre il problema. L'unico ente che può porsi il problema dell'essere. Quindi l'uomo acquista una centralità che è quella di essere e avere la consapevolezza e la percezione della finitezza umana.
Ecco perché il lavoro che qui presento, non ha i “fondi oro” che Dante e Giotto nella loro rivoluzione sostituiscono con la verità dell'uomo, della natura, del paesaggio ed alla percezione dello spazio prospettico, che, attraverso un viaggio durato secoli verso una nuova escatologia, volge il Divenire, all'esser-ci, alla consapevolezza della finitezza teleologica dei “fondi ruggine”.