Una tavola imbandita richiama una scena di vita quotidiana fatta di oggetti significanti.
Come nelle opere dipinte tra XVI e XVII secolo raffiguranti l'ultima cena, dal Ghirlandaio a Leonardo, dal Veronese, all'Allori, al Bassano, come nelle nature morte manieriste e barocche, quello che vediamo è una tavola ricolma di oggetti. Ma i tredici posti apparecchiati sono vuoti e Cristo e gli apostoli sono enigmaticamente assenti: il cenacolo è diventato a tutti gli effetti una natura morta che richiama la fragilità e la caducità del mondo dei sensi. Perché tutto è bloccato e irrigidito in una materia dura come pietra e bianca come il marmo, dalla tovaglia ai piatti, dal pane all'uva, ad eccezione solo delle bottiglie e delle coppe trasparenti che richiamano i cristalli seicenteschi, utilizzati nelle nature morte per creare un ulteriore risalto al rilievo luministico, riflettendo e raddoppiando sia la scena raffigurata sia inserendo il pittore stesso, come riflesso, all'interno del quadro.

La vertigine dell'illusione appare però qui conquistata e rifiutata per parlare d'altro, per agire nella direzione di un'esautorazione del reale attraverso le sue apparenze, in cui vita e morte convivono perché momenti dello stesso processo del divenire in un'eterna metamorfosi. Le cose si mostrano come simboli dietro lo schermo della materia in una situazione in bilico in cui la natura è morta e allo stesso tempo è viva perché appartiene a quel lampo della nostra esistenza.

Così, con duttile fluidità ci allontaniamo dal visibile per addentrarci nell'interiorità, nella consapevolezza dell'inesorabile mutare della consistenza e durata delle cose e degli uomini che soggiornano in esse, in una “metafisica della morte che è complementare ad ogni ontologia della vita” e in cui l'Arte diventa techné dell'esistenza.
Testo di Alessandra Frosini
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