giovedì 26 ottobre 2006

Informale: Jean Dubuffet e l'arte europea. 1945 - 1970

Dopo il notevole successo dello scorso anno con la mostra "Action Panting: arte americana 1940-1970", la Fondazione della Cassa di Risparmio di Modena propone nei propri spazi espositivi del Foro Boario un nuovo evento: "Jean Dubuffet e l’arte europea 1945-1970".

La mostra si articola in un percorso ideale, visto questa volta dal versante europeo attraverso "l’informale". Partendo da Jean Dubuffet, questa si sviluppa sulla linea del variegato movimento che fu denominato e divulgato dal primo e maggiore critico d’arte che abbia contribuito all’affermazione della nuova "poetica": Michel Tapié, ma che per uno strano destino, a differenza di altri grandi movimenti artistici come il futurismo, il dadaismo, il surrealismo o il corrispondente americano action painting, verrà perlopiù disconosciuto dai suoi principali interpreti. Jean Dubuffet, a cui se ne deve la matrice ideologica, piuttosto che di "informale" preferirà parlare di "art brut".

L’informale diviene, dunque, storicamente riconoscibile quale movimento "di fatto", la cui evoluzione non ha seguito canalizzazioni prefigurate e risulta ricostruibile attraverso "strumenti storici" e per affinità e convergenze. Ciò nonostante, l’Informale è stato il più grande movimento del novecento. Delineatosi nell’ambito della cultura artistica europea verso la prima metà degli anni quaranta con diramazioni anche nordamericane, l’informale ha acquisito una tempestiva configurazione di motivazioni comuni di "poetica" entro la sua ampissima estensione che non ha precedenti fra le avanguardie storiche. Estensione fenomenologica che comporta una varietà di polarizzazioni e di problematiche assai accentuata, se non altro nella contrapposizione di possibilità di esiti sia figurativi che non-figurativi, sia segnico-gestuali, che materici.

Sul piano della fenomenologia del linguaggio plastico-visivo se ne possono indicare alcuni aspetti tipici quali il carattere espressivo del segno e del gesto, alla consistenza materica. In effetti ciò che caratterizza l’Informale, pur nella varietà delle sue proposizioni, non è la ricerca di una particolare elaborazione concettuale di forme, ma il repentino ritorno all’origine stessa dell’atto formativo-comunicativo linguistico, per vincolarlo profondamente al livello dell’esistenza, del quotidiano e dell’immediatezza primaria delle sue urgenze, Così l’Informale si è sviluppato in antitesi con le tendenze che si erano imposte fra le due guerre, che proponevano un linguaggio, in senso grammaticale prima ancora che morfologico che aspirava a una purezza formale di elementi primi di una nuova convenzione linguistica, estensibile a tutti gli aspetti formali. Al contrario, le formulazioni informali insistono sulla fondazione di una nuova ipotesi linguistica, strettamente funzionale a una pulsività originaria e intimamente connessa alla contingenza esistenziale la cui palese drammaticità emerse ancora più evidente a seguito degli efferati orrori della seconda guerra mondiale, pulsione espressa attraverso un momento liberatorio e testimoniale precedente la scelta fra figurazione e non-figurazione.

Attraverso una variegata fenomenologia linguistica di proposizioni, l’Informale ha affermato il rapporto diretto con i! mondo dell’esperienza ai quali quei puri elementi di un linguaggio ideale si contrapponevano. Ha spostato la dimensione semantica da una problematica di costruzione di linguaggi espressivo in senso appunto grammaticale a quella dell’origine stessa dell’atto espressivo

Un altro importante aspetto che contraddistingue l’informale da tutti i movimenti artistici che l’hanno preceduto è, oltre alle evidenti similitudini non solo formali con l’espressionismo astratto che in quegli stessi anni si realizzava negli Stati Uniti, la sua sottovalutazione a discapito dell’arte americana. Il caso è illuminante per comprendere fino a che punto si può spingere un dominio in termini di economia e di potenza militare attraverso strumenti apparentemente neutrali ed innocui come l’arte.

Gli artisti che operavano negli Stati Uniti durante gli anni quaranta erano stati tutti influenzati dalla cultura europea, in particolare da quel gruppo di artisti che vi erano giunti negli anni trenta, in fuga dai totalitarismi europei. È a partire da quegli anni che i rapporti di forza tra l’Europa e l’America hanno cominciato progressivamente a ribaltarsi anche in ambito culturale a seguito di una strategia di cui solo recentemente si è venuti a conoscenza. Dai documenti divulgati è infatti risultato che la cia decise di promuovere l’arte contemporanea nazionale, concordemente con l’intero sistema dei musei, critici, galleristi e vertici politici. La strategia prevedeva che la "Scuola di New York" mettesse fuori gioco Parigi e in generale il Vecchio Continente.

Ciò avvenne con i fondi ed il sostegno dei politici coadiuvati dal direttore del moma Alfred Barr, attento conoscitore dei mass media, che dopo aver convinto la rivista "Life" a promuovere i pittori d’avanguardia presso il grande pubblico, diede vita ad un poderoso programma d’esportazione delle opere verso l’Europa, con una sovvenzione di 125.000 dollari l’anno per cinque anni. Questa promozione in grande stile produsse i suoi effetti e gli Stati Uniti, inizialmente profondamente restii alle forme artistiche d’avanguardia, videro l’astrattismo come uno stile di forte contrapposizione culturale e simbolo di libertà in opposizione all’estetica sovietica totalmente centrata sul realismo; riconoscendo in essa una poetica basata sulle emozioni personali, esaltate dalla Costituzione degli Stati Uniti centrata com’è sul valore dell’individuo.

Tutto ciò fu pubblicamente sottolineato nel 1952, dal critico James Johnson Sweeney che evidenziò l’aspetto politico democratico e filoamericano di quell’arte e come certi capolavori non sarebbero stati potuti essere né realizzati né esibiti in regimi totalitari come l’Unione Sovietica ed i suoi paesi satelliti. La proclamazione della supremazia ideale americana, attraverso le sue opere d’arte, venne confermata nel 1964 con l’assegnazione del Gran Premio della Biennale di Venezia all’alfiere del Neodadaismo americano, Robert Rauschenberg, premio per la prima volta assegnato ad un americano. Pur senza nulla togliere alla grandezza ed alla qualità artistica dell’opera di Rauschenberg, in molti giudicarono la scelta l’esito di accordi precedenti l’inaugurazione della mostra. L’evento, che sembrò un’ulteriore conferma dell’imperialismo culturale americano, fu apertamente sostenuto dal gallerista newyorkese Leo Castelli, la cui strategia si basò sulla costruzione di una fitta rete di gallerie amiche a cui concesse un forte guadagno sulle opere vendute. Inoltre la moglie di Leo Castelli, Ileana Sonnabend, aprì una galleria a Parigi nel 1962 contribuendo considerevolmente a diffondere l’arte americana per mezzo delle numerose gallerie satelliti dislocate nei principali centri europei.

Da allora in poi ogni movimento di rilievo fu di matrice americana: il minimalismo, l’arte concettuale, la scultura oggettuale e così via. Alcune forme d’arte di matrice tutta europea come il Nouveau Realismo franco-italo-svizzero sono state "naturalizzate" come se la loro origine fosse statunitense. Ancora più emblematico è il caso della Pop Art, le cui premesse poste dall’Independent Group inglese, furono completamente surclassate già dal 1962, anno della rassegna internazionale organizzata dal gallerista Sidney Janis a New York. Altre proposte di matrice europea vennero sconfitte con particolare ostinatezza come ad esempio l’arte optical, nata in contrapposizione proprio alla pop art (e di cui faceva parte anche "Il gruppo T" su cui si sta svolgendo un’importante retrospettiva alla Galleria d’Arte Moderna di Roma) la cui poetica era centrata sullo studio scientifico della percezione e dei rapporti occhio-cervello.

Nel 1965 alla mostra "Thè Responsive Eye" organizzata dal moma furono strumentalmente confuse le poetiche degli autori europei con quelle degli artisti americani di stampo color field che avevano solamente una vaga attenzione per il colore. In effetti il sistema di critici, musei, istituzioni e la stessa coesione degli artisti era in Europa così debole che l’America screditò il movimento con la stessa rapidità con cui aveva già fagocitato la pop art. La politica culturale espansionistica si intensificò ovunque ed i principali strumenti di questa persistente ricerca di egemonia sono stati i musei, che dai primi anni cinquanta intensificarono la promozione della Scuola di New York, coinvolgendo altri musei stranieri e ponendosi come cardine di un’arte che comincia ovunque ma che trova il suo compimento in America, di un’arte genuinamente cresciuta sulle orme di una civiltà ormai vincente, ma anche fortemente programmata dove anche la cia ha avuto ingerenze di vario tipo attraverso interventi diretti o per il tramite di soci fondatori influenti.

È in questo clima culturale e politico che la mostra sull’informale "Jean Dubuffet e l’arte europea 1945-1970" si colloca; per raccontarci il nostro presente attraverso la lettura del nostro passato più prossimo così da avvicinare il maggior numero di persone al Novecento e coinvolgerle in maniera attiva.

Le qualificate proposte della Fondazione, i ricchi programmi di attività didattiche affiancati alle mostre, stanno contribuendo, anno dopo anno, ad avvicinare il pubblico numerosissimo e sono un punto di riferimento sui quale lavorare per progredire ancora in futuro.

La mostra "Informale: Jean Dubuffet e l’arte europea 1945-1970" non delude le aspettative dei visitatori e mantiene l’elevato standard qualitativo che ha contraddistinto le mostre al Foro Boario di Modena, organizzate e realizzate in modo ottimale sotto tutti i punti di vista e non ultimo per la loro gratuità. Un esempio per tutti.