I luoghi dove l’arte espone il proprio corpo, i suoi feticci e i suoi derivati, mettono in grande evidenza un nodo teoretico, che l’idea di creatività nella sua ‘aurea’ può solo nascondere: quale senso ha oggi un’arte fatta di corpo, di rex, in una società come la nostra essenzialmente basata sulla diffusione e la velocità delle comunicazioni. In una società le cui prerogative principali sono veicolare messaggi descriventi un mondo che non esiste, simulacri; e produrre cose inutili ma apparentemente indispensabili, feticci.
Il computer e la televisione hanno generato la spazializzazione del tempo, la contemporaneità, la simultaneità, la creazione dei simulacri, immagini di qualcosa che non esiste, immagini incessantemente ripetute o seriali che condizionano i nostri sensi sino a ridurre il reale ad immagine.
In questo mondo fittizio, irreale, i mass-media, trasformando la nostra maniera di percepire le cose, inducono i nostri pensieri ad essere simulacri d’idee aventi esse stesse dubbia veridicità così che, nell’urgente necessità di appartenere, deformando il nostro corpo, ci appropriamo di corpi che non ci appartengono, oggetti, merci, feticci.
Come si colloca l’arte contemporanea in un simile contesto? Di certo non è più possibile banalizzare o minimizzare il fatto che, attraverso la verità della finzione mediatica, la realtà virtuale rischia di divenire l’unica realtà reale della nostra epoca post-moderna, l’epoca dei simulacri. È in questo contesto che l’ambiente artistico, condizionato dal mercato dell’arte, produce feticci pur negando intimamente l’esistenza e la possibilità dell’arte. Legittimando la produzione di feticci nel sostenere la necessità dell’arte per l’arte, da cui trae grossi profitti e la sua ragione di essere.
In che modo uscire da questa condizione d’inerzia, dal frequente impoverimento e dalla passività della coscienza? Credo che solo riconoscendo l’autenticità di quei corpi la cui apparenza "estetica" e dimensione tecnico-costruttiva li fa esistere come un "qualcosa" e non simulacro di se stessi, sia possibile risolvere il nodo problematico essenziale del rapporto tra ‘mimesis’ e costruzione, tra immediatezza e artificio, superando la condizione di feticcio. Solo riappropriandosi del nostro corpo autentico sarà possibile riappropriarsi dei corpi dell’arte. Henri Bergson scriveva "La maggior parte del nostro tempo lo viviamo all’esterno di noi stessi. La nostra esistenza si svolge nello spazio piuttosto che nel tempo; viviamo per il mondo esteriore piuttosto che per noi; siamo agiti piuttosto che agire noi stessi" (…).
In questo universo in perenne movimento, dove la realtà va ridisegnata e reinterpretata di continuo, certe riflessioni si proiettano nel tempo.