venerdì 5 luglio 2013

Palagio Di Parte Guelfa - Firenze



Tutte le cose che abbiamo visto e preso, le lasciamo; quelle che non abbiamo visto né preso, le portiamo con noi.
L’installazione si compone di 7 stele apparentemente di ferro rugginoso ad eccezione di una con sembianza di pietra. Il titolo, un “aforisma” della antica Grecia, è tratto da un frammento di Eraclito che ripropone come enigma sulla conoscenza dell'immediato: l'inganno in cui gli uomini cadono riguardo alla conoscenza delle cose manifeste, è il non riconoscimento dell'unità e della reciproca implicazione degli opposti, qui esemplificati dalla doppia congiunzione-opposizione vedere-prendere/non vedere-non prendere. In un antichissimo racconto della Grecia arcaica, è contenuto l’enigma ripreso da Eraclito. Il racconto, testimoniato da più fonti, è documentato da Aristotele nel seguente frammento: «...Omero interrogò l'oracolo per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di Io è patria di tua madre, ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall'enigma di giovani uomini". Non molto dopo ... giunse a Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla spiaggia e chiese loro se avevano qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca dissero: "Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo ", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uccisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li portavano nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enigma, morì per lo scoramento». Quel che immediatamente sorprende in questo racconto è il contrasto tra la tragica violenza del suo epilogo e l’apparente futilità del suo contenuto, analogamente sorprende la formulazione dell'enigma che si mostra incoerente a causa delle due coppie di determinazioni contraddittorie, «abbiamo preso - non abbiamo preso» e «abbiamo lasciato - portiamo», congiunte inversamente. Scrive Eraclito: «Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente a Omero, che fu più sapiente di tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei giovani che avevano schiacciato pidocchi, quando gli dissero: "Tutte le cose che abbiamo visto e preso, le lasciamo; quelle che non abbiamo visto né preso, le portiamo con noi"». In questo frammento c'è molto di più della semplice allusione ad un celebre enigma della tradizione e - sebbene Eraclito tralasci sia le premesse dell'episodio, sia la causa della morte di Omero (trattandosi appunto di un mito popolare) - richiede un’interpretazione più profonda che non si risolva nei pidocchi. Innanzitutto, è possibile supporre un collegamento tra le due frasi «rispetto alla conoscenza delle cose manifeste» e «quello che abbiamo visto e preso»: così come Omero fu ingannato rispetto alle cose viste e prese, cioè ai pidocchi, in quanto non sapeva di che si trattava, così noi siamo ingannati rispetto alla conoscenza delle cose manifeste, in quanto le crediamo reali mentre non lo sono. In tal caso la prima parte dell'enigma, sarebbe dunque così: «le cose (manifeste) che abbiamo preso, le lasciamo» rivelando il rifiuto per ogni realtà oggettiva e per le sue apparenze sensoriali. «Le cose (manifeste) che abbiamo preso» stanno a significare la loro semplice cognizione sensibile, ciò in cui consiste l'illusoria realtà del mondo che ci circonda, niente altro che una serie di sensazioni. Queste cose manifeste che abbiamo preso, le lasciamo perché sono le cose manifeste, che ci traggono in inganno e suscitano l'illusione di esistere fuori di noi, di essere reali, permanenti, soprattutto perché noi immaginiamo l'esperienza sensoriale come qualcosa di stabile, esistente fuori di noi. L'esperienza dei sensi noi l'afferriamo momentaneamente e poi la lasciamo cadere; se volessimo fermarla la distorceremmo. I frammenti: «Nulla perdura se non il mutamento» e «Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo» riflettono sulla consapevolezza che non c'è alcun fiume fuori di noi, ma soltanto una fuggevole sensazione cui assegniamo il nome di fiume e di uno stesso fiume quando si presenta a noi più volte una sensazione simile alla prima: ma di concreto, sebbene ogni volta siano simili, non c'è altro se non una sensazione momentanea, cui non corrisponde nulla di oggettivo, nulla di permanente; se vogliamo designare ciascuna di esse con il nome di fiume, possiamo farlo, ma ogni volta si tratterà di un fiume nuovo. Applicando allo stesso modo, l'antitesi parallela delle determinazioni contraddittorie alla seconda parte dell'episodio omerico: «le cose (nascoste) che non abbiamo visto né preso, le portiamo», emerge preponderante come ciò che è interiore è prioritario, così come dal frammento: «l'armonia nascosta è più forte di quella manifesta»; preminenza dell'interiorità rispetto all'illusoria concretezza del mondo esterno. Solo la nascosta interiorità, ciò che non vediamo né prendiamo, ma portiamo dentro di noi è permanente, anzi nel manifestarsi, scrive altrove Eraclito: «accresce se stessa».

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