domenica 22 luglio 2012

Il Sabato del Villaggio. Ignazio Fresu a Cerreto Laziale, di Attilio Maltinti


di Attilio  Maltinti
Il Sabato del Villaggio
 Installazione scultorea di Ignazio Fresu a Cerreto Laziale.
Di fronte a questa opera di Fresu si hanno sentimenti contrastanti.
La composizione ha, nel suo muoversi, la suggestione di una fontana barocca  posta a capo d’angolo di due strade; scivola fra rivoli e cascatelle di oggetti posti in sovrapposizioni asimmetriche eppure ordinate, con squilibri che si ricompongono.
Ma suscita (può suscitare) anche l’impressione, opposta,  di agglomerato residuale di una società consumistica, di forte impatto.
Quale delle due? Lasciamo la parola all’opera. E’ vero che in essa tutti gli oggetti possono venir percepiti come accatastati, forse abbandonati, in un mucchio anonimo; ma ciascuno di essi mantiene una testimonianza.  Qui non sono “scartati”, “gettati fra le altre cose” come in una informe discarica, ma raccolti in un insieme omogeneo e di per sé significativo.
Niente vieta di considerarli “rifiuti selezionati”: ma altrettanto plausibile è, allora, fare riferimento –non di comodo ma di esempio- all’artista Vik Muniz che con gli scarti delle discariche di Rio de Janeiro  ha costruito e composto insieme ai “catadores” brasiliani di Jarden Gramacho  una vera opera d’arte andata regolarmente in asta e comprata.
Quindi non ci sarebbe illegittimità o contraddizione a considerare quest’opera di Fresu secondo tutti e due i punti di vista sopra indicati: in fondo riflettere sulle modalità della società contemporanea consumistica, sui modi per rappresentarla, o criticarla, è permesso anche all’arte! Su questi aspetti l’arte può dire la sua.
Dunque cosa c’è in questa costruzione di Fresu? Cosa la caratterizza?
Indubbiamente, e siamo d’accordo, c’è il forte impatto materico, che è una costante del suo lavoro.  C’è però (sopratutto) la suggestione dei ricordi, la memoria dell’infanzia. In essa si leggono i momenti fissati e recuperati nei giocattoli, insieme alle voci e alla gioia di un tempo. C’è la tenerezza di un passato. E l’accumulo di un vissuto. Viene voglia di rovistare tra quegli oggetti per trovare o riconoscere qualcosa di caro, recuperare la commozione di come siamo stati, la traccia significativa di una esperienza.
E tutto torna vivo, non coperto di polvere, ma legato al proprio cuore. Tutto sembra accatastato in una sorta di partecipazione collettiva che coinvolge il contributo di tutti e di ciascuno in un “deposito” e in una sedimentazione di memoria comune.
E’ un’opera che evoca la costruzione di qualcosa di tradizionale  appartenente alla cultura del villaggio, ossia di una comunità.[fosse anche un moderno totem]. E’ la rievocazione di qualcosa di simbolico.   Il sabato si riconosce in questa partecipazione collettiva, in questo ritrovarsi per comunicare, dopo i momenti settimanali vissuti individualmente, come si fa nelle feste di paese quando ci si riconosce in qualcosa.
Qui il giocattolo assume l’aspetto –e il valore- di un richiamo che non ha età perché attraversa generazioni; riproponendosi come “depositum communitatis”.
Tamburi, trombette, monopattini, carriole, bici, birilli, bocce e palloni, orsetti, libri… un universo d’infanzia, uno spazio affettivo che costituisce un monumento non/monumento, un libero accostarsi di ricordi, dove gli oggetti mantengono la loro evidenza e pur godendo di vita propria, costruiscono l’insieme di questa torre da favola, di questa catasta di piccole meraviglie. E’ un Carro di Tespi dei giocattoli.
E questa piramide , dominata dai forti chiaroscuri del grigio, piena di anfratti e protuberanze, di improbabili accostamenti di volumi, di azzardati equilibri come nella migliore tradizione barocca, induce anche all’effetto e alla meraviglia nel gioco, finalmente gustoso, di liberare la fantasia dell’infanzia, come nel Barone di Munchausen. Si, può essere una favola scolpita, questa opera di Fresu.
[.] Costruzione ludica, allusiva alla necessità di ritrovare nei giocattoli- o meglio nell’attività del gioco- quella parte migliore dell’umanità che inventa e conosce, progetta e simbolizza, vive e sperimenta le proprie emozioni. E quel cavallo che svetta su tutto, e su tutti gli altri oggetti, non può essere casuale: dal punto di vista visivo, dà all’accumulo una tensione dinamica; dal punto di vista formale,  riunisce in sé la spinta sovrapposta degli oggetti per sbucar fuori e portarli con sé. E’ una forza emergente e trascinante, un segno di vitalità; una corsa originata in/e / su quell’agglomerato (come ci fosse fra loro il gioco dell’acchiappino) e ogni oggetto ne è parte.
In questa massa ricostruita, i giocattoli sembrano spingersi , prendersi e rincorrersi: gli squilibri voluti sono ricomposti, con astuzia e garbo, per consentire a tutti e a ciascuno di “essere sulla scena”. Gli giri intorno e vedi il  teatro che riaffiora in quel mondo di favola: che sia un mondo semi-incantato o stregato da una condanna all’oblìo  o alla bulimia di consumo? Torna il dilemma iniziale.
Ma l’opera è ancora lì, sullo spazio pubblico, a richiamare l’umanità di questi giochi, il loro carico di felicità nella loro funzione creativa. Soprattutto essa non è, come monito, una catasta da bruciare.  Non è un rogo.
Attilio  Maltinti , luglio 2012